Lettera aperta all'accademia della Crusca
Esimio Professore,
voglia perdonare l'ardire di rivolgermi a Lei con tanta familiarità e confidenza dalle pagine di questo modesto dizionario, in cui mi pregio di arrabattarmi nell'umile opera di rivalutazione, nonché comica esaltazione di quel lessico di basso registro al quale viene ingiustamente attribuita la definizione di triviale, ma che scaturisce da un antico uso popolare e da altrettanta saggezza e capacità espressiva dei miei e forse anche dei suoi avi e ascendenti.
Mi ha prostrato la notizia che l'illustre e prestigiosa istituzione che Ella con tanta perizia e con tanti sforzi dirige e presiede, L'Accademia della Crusca, abbia deciso di epurare dal proprio Dizionario alcuni lèmmi definendoli "non più in uso" nel linguaggio contemporaneo e, tra questi, in particolare mi dolgo di trovare la parola cacio.
I commentatori dei quotidiani che hanno riportato la notizia hanno affermato che i lèmmi in questione saranno confinati nei dizionari dialettali, noto cimitero di elefanti dove solitamente si ammucchiano i resti confusi del colore e del folclore, delle curiosità e delle sguerguenze (le piace "sguerguenze", professore? Provi a sostituirlo con qualcos'altro di più moderno!), nonché le cazzate e gli abbagli dei cosidetti esperti locali, da sempre intesi a ponderosi studi sulla ciabatta di Santa Pudentilla e a oziose discettazioni sull'ètimo arabo della parola cacciucco. Triste fine.
Io mi dichiaro un dilettante e confesso di non possedere tanta scienza, professore, da pretendere di arricchire l'apparato critico delle parole e dei dittaggi che amo e che ho riesumato nel mio modesto dizionario, ma esse mi son care a tal punto da averne inventato, qua e là, da saltimbanco e umorista, referenze linguistiche, storiche e filologiche affatto apocrife, al solo fine di riportarle all'attenzione del pubblico e segnatamente dei giovani, lugubremente affogati nel pelago dei nuovi linguaggi di rapido e frustrante consumo.
Ed è per questo che le chiedo: che cosa succederà, per esempio, con il nobile cacio, professore, che tra l'altro - è inutile che lo ricordi proprio a Lei - vanta una discendenza diretta dall'esecrato latino?
Sarà decorosamente sostituito dall'apprezzabile formaggio, non c'è dubbio, e non se ne lagneranno certo le ditte produttrici di corrivi latticini o i gourmet dei grandi ristoranti alla moda; ma che sarà dell'esercito dei derivati e dei composti, caciara, caciarone, scaciare, scaciato, incaciare, caciottolo, cacioso e altri che non riesco a citare all'impronta?
Si potrà definire acconciamente formaggiosa invece che caciosa una situazione problematica e di difficile risoluzione, quale la condizione del dissesto idrogeo logico del paese (almeno come la illustra nelle sue lezioni con molta efficacia un mio amico pisano, illustre cattedratico di Scienze della Terra)?
Si potrà con altrettanta potenza espressiva dare dello sformaggiato invece che dello scaciato all'individuo derelitto ed emarginato dalla società e avrà il medesimo effetto, per significar stupore e sorpresa, affermar che si è rimasti di formaggio piuttosto che restati di cacio?
E infine mi permetta, professore, una licenza tipicamente borzacchiniana, per intendersi infognata in quel basso registro che è il mio campo di ricerca appassionata. Lei ritiene che la scritta, tracciata da mano anonima a carbonella, che fino a poco fa campeggiava da tempo immemorabile su un muro di Borgo Cappuccini a Livorno, ARGIA SCÁCIAMI LA FAVA, possa essere sostituita con ARGIA RIMUOVIMI IL FORMAGGIO DAL GLANDE senza che ci colga il dubbio di aver perduto qualcosa dell'originale immediatezza e della candida scurrilità dell'espressione?
Voglia meditare sulle mie riflessioni, professore.
La ringrazio e Le porgo i sensi della mia devozione.
suo prof Ettore Borzacchini
Accademico della Farina dei Semi di Lino